Avv. Carlo Marchesini
La sentenza del 7/7/2021 del Tribunale di Venezia è una interessantissima pronuncia sul danno extracontrattuale derivante da pratiche commerciali scorrette ed ingannevoli.
La lesione della libertà contrattuale, a partire dal noto caso De Chirico (cfr. Cass. 4 maggio 1982, n. 2765), è fonte di responsabilità extracontrattuale; ciò qualora il terzo abbia indotto colpevolmente in errore il contraente in ordine alle qualità del bene, determinandolo alla conclusione del contratto e provocando una perdita patrimoniale.
Si tratta di una tipica esemplificazione della atipicità del danno patrimoniale.
Il fondamentale insegnamento delle SU 500/1999 è quello secondo cui è ammessa la risarcibilità di un danno ingiusto in relazione a qualsivoglia interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento interno oppure di quello comunitario (attraverso regolamenti o direttive self-executing). Questo in virtù del principio di atipicità dell’illecito aquiliano, a sua volta scaturente dalla attribuzione del requisito della ingiustizia al danno.
Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un “danno ingiusto”, ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioé dell’interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell’interesse che il comportamento lesivo dell’autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione della sua prevalenza.
(Cass. civ. S.U. n. 500 del 22-07-1999, Banche Dati Giuridiche De Agostini, vedi anche Cass. 23.2.2010, n. 4326, in www.cortedicassazione.it, Cass. 29.1.2010, n. 2122, in www.personaedanno.it).
La selezione di queste situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela va effettuata non in maniera incontrollata dal giudicante, ma muovendo dalla rigorosa indagine sul tipo di interesse e di tutela apprestata dalla legge.
Indagine – qui un altro passaggio interessante della sentenza 500/1999 – che va svolta sia in relazione alla tutela diretta (quando la legge detta ex professo una disciplina in materia) sia indiretta (quando la legge prende in considerazione tale situazione giuridica soggettiva sotto altri profili diversi da quelli risarcitori) (cfr I danni di lieve entità, Carlo Marchesini, Giuffrè, pag. 45 ssgg. 2013).
Ciò premesso, dall’insieme dei diritti fondamentali enucleati all’art. 2 del Codice del Consumo si trae il diritto del consumatore all’autodeterminazione in campo negoziale, ovvero il diritto a compiere liberamente e consapevolmente le proprie scelte.
A fronte dell’asimmetria informativa nella contrattazione di massa, la previsione, sul piano comportamentale, di obblighi informativi e del dovere di buona fede e trasparenza in capo al professionista è volta a consentire al consumatore di compiere liberamente e consapevolmente le proprie scelte negoziali, senza essere a ciò indotto in errore dalla condotta illecita del professionista.
Ciò premesso, torniamo alla sentenza in commento.
La stessa ha ad oggetto la responsabilità extracontrattuale del produttore e del distributore. Le tutele che vengono in rilievo sono quelle generali approntate dall’ordinamento giuridico, ossia la tutela risarcitoria del danno ingiusto cagionato al consumatore.
L’azione di risarcimento danni ex art. 2043 c.c. per lesione della libertà negoziale viene espressamente qualificata nella sentenza in commento come di natura non patrimoniale.
Sul punto si rileva in maniera critica come di tale qualificazione non vi sia alcun bisogno. Una volta intrapresa la via della atipicità del danno patrimoniale, perché “incastrarsi” sotto la necessaria copertura costituzionale del danno non patrimoniale? Fra l’altro, contraddittoriamente, la sentenza in parola definisce espressamente il diritto alla autodeterminazione negoziale “un diritto fondamentale, ancorché non costituzionalizzato (cfr. Cass., sez. un., 794/2009)”. Questa caduta logica si presta ad un motivo di appello.
Il danno in parola implica anche la violazione della regola di buona fede, determinando un assetto d’interessi più svantaggioso anche in presenza di un contratto valido (cfr. Cass., sez. un., 19/12/2007, n. 26724 e Cass. 17/09/2013, n. 21255); inoltre, si superano di slancio non agevoli oneri probatori, disincentivando condotte opportunistiche favorite dall’ostacolo nell’accesso alla giustizia. Si tratta quindi di un utile strumento le cui caratteristiche e potenzialità meritano di essere brevemente approfondite.
Si fa riferimento ad interessi che non si collocano esclusivamente nella sfera giuridica individuale del singolo consumatore. Vanno oltre. Dalla doppia natura. Plurale e singolare allo stesso tempo. Da qui la risarcibilità al singolo riconosciuta dall’ordinamento.
La condotta che determina un danno da pratiche commerciali scorrette o ingannevoli è plurioffensiva; innesca un evento di danno di carattere diffusivo nella cornice di diritti individuali omogenei.
La azionabilità in giudizio può avvenire sia in forma individuale che collettiva. Quest’ultima permette di recuperare delle economie di scala, che inevitabilmente nelle azioni individuali rischiano di perdersi: i costi terziari (spese processuali) possono infatti sopravanzare quelli primari (intesi come somma algebrica del danno/danni attesi) e quelli secondari (alea di rischio insita in ogni giudizio).
A loro volta, sia l’una che l’altra modalità, possono basarsi, o prescindere, da un provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato. In questo secondo caso l’onere probatorio è molto più gravoso. Le variabili sono quindi molteplici.
Per “pratiche commerciali tra professionisti e consumatori” si intendono ai sensi degli artt. 20, 21, 22 e 23 del Codice del Consumo qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori, per falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori e per alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Venezia veniva in rilievo la condotta di VOLKSWAGEN AKTIENGESELLSCHAFT e di VOLKSWAGEN GROUP ITALIA s.p.a., rei di aver prodotto e commercializzato in Italia autoveicoli con il dispositivo antinquinamento alterato.
L’art. 5.2 del regolamento UE 715/2007 statuisce espressamente che “L’uso di impianti di manipolazione che riducono l’efficacia di sistemi di controllo delle emissioni è vietato”.
Nel caso specifico è risultata innanzi tutto integrata una pratica commerciale ingannevole ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. d) D.Lgs. 206/2005, per aver Volkswagen falsamente asserito che “le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta”.
Risulta inoltre integrata una pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 20 Codice del Consumo; si tratta pacificamente di un illecito di pericolo che sussiste in ragione dell’astratta idoneità della pratica a falsare il comportamento economico del consumatore nella sua scelta di acquisto a prescindere da una valutazione dell’effettivo danno economico concretamente causato (Cons. Stato, Sez. VI, 16.3.2018, n. 1670; 19.9.2017, n. 4878; 6.9.2017, n. 4245; 24.11.2011, n. 6204; 16.8.2017, n. 4011; TAR Lazio, Sez. I, 9.4.2019, n. 4621; 24.4.18, n. 4571). Volkswagen ha infatti deliberatamente installato un impianto di manipolazione dei gas di scarico vietato dalla normativa comunitaria, al fine di poter conseguire l’omologazione altrimenti non raggiungibile.
E’ dovuto inoltre il risarcimento del danno morale: infatti la pratica commerciale scorretta posta in essere da Volkswagen integra anche il reato di frode in commercio di cui all’art. 515 c.p.
La prova del danno. Nel giudizio de quo la prova principe è il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato, preceduta da opportuna istruttoria i cui risultati sono richiamati nel provvedimento suddetto (Provvedimento n. 26137 adottato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nell’adunanza del 4 agosto 2016).
Inoltre ad ulteriore supporto vengono richiamati sia la comunicazione del 25 settembre 2015 dell’Autorità Federale dei Trasporti Tedesca KraftfahrtBundesamt (KBA) (“the manifacturer is already requested by the KBA to present a detailed package of measures and a time table to bring the cheicles back into conformity”), sia l’ordinanza del 15 ottobre 2015 con la quale è stata accertata la non conformità dei veicoli che montano motori EU5 Tipo EA 189 ai requisiti per l’omologazione in conformità al Regolamento EU N.715/2007.
Inoltre nella Relazione della Commissione di inchiesta “Volkswagen” del Ministero dei Trasporti e della Infrastrutture tedesco si da atto che Volkswagen nella seduta del 23/9/2015 aveva ammesso la presenza di impianti di manipolazione.
L’illiceità del dispositivo viene dedotta anche in un articolo apparso sull’edizione on line del 30.9.2019 de “La Repubblica” nel quale, nel riportare la notizia delle iniziative giudiziarie intraprese in sede penale e civile in Germania, è contenuta una dichiarazione fatta dall’amministratore delegato di VW AG nel corso di una trasmissione televisiva del seguente tenore «ciò che abbiamo fatto è stata una truffa».
In prospettiva confessoria, viene valorizzata dal Giudice anche la circostanza che la casa costruttrice aveva disposto “l’adozione di un piano di interventi volto ad eliminare le condizioni irregolari, tramite la rimozione dell’impianto o degli impianti di manipolazione e l’adozione di misure da parte del costruttore, al fine di garantire il rispetto dei valori soglia di emissioni applicabili ai veicoli prodotti e immessi sul mercato o già in circolazione nei singoli Paesi sulla base delle autorizzazioni conseguite”.
La natura illecita del dispositivo era stata accertata, infine, anche dalla pronuncia pregiudiziale del 17/12/2020 – CAUSA C-693/18 della Corte di Giustizia UE, che aveva qualificato quale impianto di manipolazione il software idoneo a consentire di individuare parametri corrispondenti a quelli dei test effettuati in laboratorio secondo il profilo NEDC.
Da questo raccolto probatorio risulta la consapevole installazione del dispositivo al fine di eludere i limiti di emissione di Nox; risalta un marcato divario tra le declamate caratteristiche enunciate nel materiale pubblicitario relativo all’autovettura e quelle in realtà esistenti. Divario scaturente da una pratica commerciale scorretta, che si connota per la sua ingannevolezza.
Ci si può fermare a questo livello probatorio.
Come giustamente messo in evidenza dalla giurisprudenza tedesca, l’attore non è onerato di spiegare nel dettaglio come avviene la frode (Betrug), quale ne sia il meccanismo alla base ed il suo funzionamento nello specifico. Si tratta di informazioni fuori dalla portata dell’utente, anche se dotato di una diligenza specifica, e coperte da privativa e segreti industriali. Potremmo parlare al riguardo “der leichten Prüfung von den minipululierten Abgasrückfürung”.
La sentenza del Tribunale di Venezia è scesa invece ancor più nel dettaglio dal punto di vista tecnico, precisando che l’inganno escogitato consisteva nell’aumentare il livello di apertura della valvola EGR, al fine di riconvogliare una parte più consistente dei gas di scarico nel collettore di aspirazione; in tal modo si riducevano “a monte” le emissioni del veicolo sottoposto a test affinché le stesse rispettassero le soglie stabilite dal regolamento n. 715/2007. Tutto questo avveniva nei test di omologazione in laboratorio, in cui venivano svolti quattro cicli urbani seguiti da un ciclo extraurbano, al fine di verificare il quantitativo di 23 emissioni di ossido di azoto.
Quanto alla prova della pratica commerciale ingannevole ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. d) D.Lgs. 206/2005, la stessa veniva tratta dai messaggi promozionali versati in atti dove la casa costruttricie espressamente dichiarava che “un sistema ben coordinato di interventi mirati consente all’autovettura di raggiungere valori di consumo e di emissioni davvero eccezionali” per un conducente al quale “la tutela dell’ambiente e una guida sostenibile stanno veramente a cuore”. Gli environmental claims (con il senno di poi, dalla spiccato carattere canzonatorio) erano quindi tenuti in primaria considerazione dal Gruppo automobilistico nell’espletamento della propria attività di impresa.
Il danno risarcibile in capo al consumatore. Lo stesso consiste nel maggior aggravio economico sostenuto per l’acquisto di un veicolo formalmente Euro5, ma di fatto di classe Euro inferiore. Questa differenza è agevolmente ricavabile dalla stampa specializzata.
In un’ottica di equità e di uniformità di giustizia sostanziale, il Tribunale di Venezia ha fatto riferimento alle soluzioni adottate nei diversi Paesi dell’Unione Europea: ad esempio all’Autorità Giudiziaria spagnola (cfr. Juzgado de lo Mercantil n. 1 de Madrid n.36/2021) o all’accordo stragiudiziale raggiunto nella Repubblica Federale Tedesca tra Volkswagen e la Vzbv (Verbraucherzentrale-Bundesverband).
Il danno patrimoniale riconosciuto in capo ai consumatori europei, a fronte del medesimo illecito consumeristico, è stato determinato pari al 15% del prezzo medio di acquisto dei veicoli coinvolti dal cd. Dieselgate in Italia. Tale valore si trae dal provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato n. 26137 adottato nell’adunanza del 4 agosto 2016, che lo ha stimato compreso tra 10.000 a 30.000 euro.
L’importo risarcitorio che ne deriva, a titolo di danno patrimoniale, è pertanto pari ad €3.000, prendendo a riferimento il dato mediano di €20.000.
Ai fini della determinazione del danno morale da reato, l’importo ottenuto a titolo di danno patrimoniale è stato aumentato del 10% in analogia alla parametrazione del danno morale in rapporto al danno biologico previsto dalle Tabelle del Tribunale di Venezia; ciò quindi per un importo di euro 300,00.
Il danno risarcibile, in definitiva, è stato pari ad €3.300, oltre la rivalutazione monetaria dall’acquisto alla decisione e oltre gli interessi di cui all’art. 1284, comma 4, c.c. dal 180° giorno dalla pubblicazione della presente sentenza al saldo secondo quanto previsto dall’art. 140 bis, comma 12.
Tenuto conto della natura di illecito di pericolo della pratica commerciale scorretta, la stessa si perfeziona al momento dell’acquisto del veicolo. Non hanno pertanto rilievo ai fini risarcitori le successive vicende circolatorie del bene; è sufficiente che l’autovettura sia stata acquistata in Italia nel periodo compreso tra il 15.8.2009 e il 26.9.2015.
Le spese di lite hanno seguito il criterio della soccombenza. Le parti convenute infine sono state anche condannate al pagamento del doppio delle spese di lite per aver resistito in mala fede in giudizio ex art. 96, comma 3, c.p.c.
Approccio diverso quello della giurisprudenza tedesca in cui invece le vicende circolatorie del bene, nel senso di chilometri percorsi, rilevano eccome (Die gefahrenen Kilometer werden allerdings mit dem Kaufpreis verrechnet;cfr. BGH 20/7/2021 n. 137 e 138) fino ad escludere del tutto il risarcimento in caso di conclusione del ciclo vitale della vettura (200.000 km percorsi). Allo stesso modo il risarcimento non spetta in caso di auto acquistata in Leasing (BGH 16.09.2021, Az. VII ZR 192/20).