Avv. Carlo Marchesini
(Cass. S.U. 3/5/2019, n. 11748 in www.cortedicassazione.it)
Le Sezioni Unite della Cassazione ribadiscono e chiariscono, in una sentenza densa di concetti ed allo stesso tempo chiarissima e con una netto profilo divulgativo, i capisaldi della ripartizione dell’onere probatorio in materia contrattuale: sia in generale, sia in riferimento alla figure di più frequente verificazione pratica, quali la compravendita, l’appalto e la locazione.
In caso di vizi della cosa venduta, la Corte stabilisce che bisogna distinguere tra inadempimento ed inesatto adempimento. Nel primo caso, si tratta di un fatto negativo per il creditore: il relativo onere, per il principio negativa non sunt probanda e di vicinanza della prova, incombe sul venditore che dovrà dimostrare in giudizio di aver consegnato il bene. Nel caso di inesatto adempimento, la circostanza da provare è invece positiva e da intendersi come un fatto differente dal risultato atteso dal compratore: il bene consegnato presenta imperfezioni o difetti inerenti al processo di produzione; è differente da quanto promesso. Incombe in questo caso sul compratore, ex art. 2697 c.c., la prova del fatto costitutivo della risoluzione del contratto o della diminuzione del prezzo.
Il primo caso rientra perfettamente nelle regole del prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale inaugurato dalle S.U. 13533/2001.
Il secondo diverge, invece, dalle conclusioni cui giungeva quest’ultima sentenza che non distingueva tra inadempimento ed inesatto adempimento: il creditore era sempre “meramente” onerato di allegare l’uno o l’altro, mentre la mancanza di prova del vizio, del nesso di causalità e delle conseguenze dannose gravava sul debitore. La sentenza odierna, invece supera il concetto classico di inadempimento parlando di “anomalia della attribuzione traslativa”. Le azioni edilizie non presuppongono la colpa, ma operano oggettivamente in caso di riscontrata differente natura e qualità della merce. Cosicché è giustificabile la differente disciplina probatoria.
Le S.U. ribadiscono, in definitiva, la funzione esplicativa della ripartizione dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., la sua armonia con le regole e la giurisprudenza comunitaria (art. 2, §2, Direttiva 1999/44/CE e CGUE 4/6/15, C-497/13), facendo risaltare le incongruità dell’orientamento minoritario secondo cui, anche in ipotesi di inadempimento tout court, sarebbe onere del venditore dimostrare, anche con presunzioni, di aver consegnato una cosa conforme al tipo ordinariamente prodotto (Cass. 20110/13, Cass. 24731/16 e Cass. Ord. 21927/17). Gli effetti del nuovo arresto vengono infine declinati nelle ipotesi dei contratti di appalto e locazione.
Nell’appalto, il discrimen è segnato dall’accettazione, espressa o tacita dell’opera. Prima di tale momento spetta all’appaltatore l’onere di dimostrare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte. Successivamente, spetta al committente, che ha accettato l’opera e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica (ancora il principio della vicinanza della prova o delle sfere di azione) dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate.
Anche nella locazione, in caso di risoluzione ex art. 1578 c.c., elemento distintivo è sempre l’accettazione della consegna della cosa e la sua materiale disponibilità. Sul conduttore grava l’onere di dimostrare l’esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l’idoneità del bene pattuito. Al locatore spetta provare che vizi “erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivante dai vizi della cosa”. Il primo caso rientra perfettamente nelle regole del prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale inaugurato dalle S.U. 13533/2001.