Dott. Antonio Zappia
(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5329 del 02/03/2017)
Il condominio è regolato da un insieme di norme ad esso riservate che ne differenziano in parte la disciplina rispetto a quella della comunione.
A queste norme sottostanno tutte quelle parti degli edifici che rientrano nella definizione, non esaustiva, contenuta nell’art. 1117 c.c. In poche parole, sono beni condominiali quelli che per volontà dei titolari o per legge servono l’uso e il godimento dell’edificio a favore di tutti i condomini. Restano comunque applicabili, in via residuale, le norme sulla comunione in generale, in virtù del rinvio effettuato dall’art. 1139 c.c.
Nella gestione delle parti comuni, la legge cerca di bilanciare il rispetto del diritto di tutti a godere dei beni con l’esigenza di prendere delle decisioni per la loro conservazione e innovazione. Così sono previste diverse soglie di maggioranze assembleari, a seconda del tipo di decisione da prendere, fino ad arrivare al massimo rigore in tema di divisibilità; la divisione è infatti possibile solo con l’unanimità dei consensi dei condomini e a patto che non si renda “più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino” (art. 1119 c.c.).
Tuttavia, nei casi di c.d. condominio minimo, quello composto da due soli titolari, il sistema normativo è andato incontro ad un’aporia.
È evidente, infatti, come non siano concettualmente possibili maggioranze, e correlate minoranze, in senso proprio. Nel condominio minimo i casi possono essere due: non c’è accordo tra le parti, e allora c’è parità di dissenzienti e consenzienti; oppure entrambe concordano, e allora c’è unanimità.
Questa rigida alternativa può comportare di fatto conseguenze contrarie alla ratio della disciplina, in riferimento a categorie di decisioni per le quali il codice privilegia la possibilità di intervenire, con l’accordo dalla maggioranza qualificata, sulla raccolta del consenso di tutti.
La sentenza della Cassazione citata si pronuncia sulla validità della delibera adottata da un solo condomino, in assemblea regolarmente convocata, pur in assenza dell’altro.
Vengono richiamate le conclusioni raggiunte dalla stessa Suprema Corte a Sezioni Unite, nella precedente sentenza n. 2046/2006.
Quest’ultima, in sintesi, era intervenuta per porre rimedio al contrasto giurisprudenziale sulla applicabilità o meno al condominio minimo delle regole sul voto in assemblea, dettate dagli artt. 1136 ss. c.c. per il condominio. I Giudici di legittimità hanno concluso per la applicabilità, argomentando che nulla esclude che le decisioni previste dal codice siano approvate da una maggioranza più ampia di quella minima richiesta. Pertanto, quando c’è accordo tra le parti il problema non si pone.
Nell’ipotesi contraria, le Sezioni Unite hanno ravvisato un caso di impossibilità di formazione della maggioranza.
Hanno, dunque, dichiarato applicabile l’art. 1105, ultimo comma, c.c., in tema di comunione in generale. Tale disposizione consente all’interessato, nell’eventualità suddetta, di ricorrere all’autorità giudiziaria affinché questa adotti i provvedimenti che si richiedono, direttamente o tramite un amministratore da lui nominato
In presenza dell’’inesorabile bivio, accordo unanime o impossibile, si realizza quindi il requisito previsto dall’art. 1105, ultimo comma c.c.
La Cassazione n. 5329/2017, qui in esame, ha chiarito che tale rinvio non tocca la perentorietà delle regole sulla costituzione dell’assemblea. Non è possibile, come invece sosteneva il ricorrente, che la maggioranza sia calcolata sul numero degli intervenuti in assemblea, se questa non si è validamente costituita (con la presenza della maggioranza dei titolari, nel caso di specie entrambi).
L’assunto opposto sarebbe violativo della ratio fondamentale della disciplina del condominio (il rispetto del diritto di ciascuno ad usare, godere e quindi decidere della cosa). La Suprema Corte conclude, dunque, che la decisione presa dall’unico partecipante all’assemblea è una “mera manifestazione unilaterale di volontà” (pag. 13 della sentenza) e di conseguenza la delibera deve ritenersi viziata da nullità o addirittura inesistente.
Riepilogando, il condominio minimo si colloca in tutto e per tutto all’interno della disciplina codicistica sul condominio, di cui agli artt. 1117 ss. c.c., ivi comprese le regole sulla costituzione ed il funzionamento dell’assemblea, con corrispondente esclusione delle diverse norme dettate per la comunione in generale.
In caso di disaccordo dei titolari, fuori o dentro l’assemblea, si è davanti all’impossibilità di formazione della maggioranza, in quanto all’infuori dell’unanimità non vi sono alternative avverabili.
In questo spazio, non espressamente disciplinato dalle disposizioni sul condominio, si inserisce, allora, il rinvio alle norme sulla comunione, contenuto nell’art. 1139 c.c. e, per l’effetto, diventa operativa la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 1105 c.c.
Il condomino interessato può quindi rivolgersi al Giudice per l’adozione dei provvedimenti che intende richiedere.